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Dario Levantino ritorna con il suo ultimo romanzo “La violenza del mio amore” e lo fa in maniera diretta, come del resto ha sempre fatto grazie alla sua “formidabile penna”. Rosario lo abbiamo già conosciuto nei suoi precedenti romanzi ma adesso ha quasi 18 anni. È un uomo ormai e ha una grande responsabilità perché la sua Anna aspetta un bambino da lui. “Quando avevo diciassette anni e undici mesi, Anna è venuta da me con la pancia gonfia di amore e i vestiti stretti.” Bell’affare! Anna è per giunta sola perché la sua famiglia le ha girato le spalle. E lei? Cosa fa? Lei sceglie l’amore: Rosario, ‘u figghiu ‘i Maria ‘a pazza. “E lei aveva scelto, disonorando la famiglia. Da quel momento per i suoi genitori Anna non esistette più.” Rosario, Anna e il cane Jonathan sono un trio perfetto. Poi c’è la nuova arrivata, la piccola Maria, una bambina molto, molto speciale. “Io, Anna, Maria e Jonathan siamo come una testuggine, nessuno ci può separare.” Sembrerebbe tutto davvero perfetto, ma non è così semplice come si potrebbe pensare anche perché ci troviamo a Brancaccio, tra il degrado, la povertà e soprattutto la criminalità che gestisce quello che puoi, che devi e che vorresti fare. I Mandalà, i malavitosi, dettano le regole anche per avere una casa popolare, quella che Rosario cerca di ottenere disperatamente perché possa diventare il suo nido familiare. Cosa può fare un ragazzo di fronte a tanta cattiveria? Cosa, di fronte al boss del quartiere, il temuto Totò Mandalà? Nella storia, che si snoda sicuramente tra dolore e umiliazione, emerge soprattutto la forte dignità che contraddistingue Rosario. In questo romanzo continua a incatenarsi anche la bellissima storia di amore consumata dai due giovani in una barca rovesciata (quella che ci ha fatto sognare già dal primo romanzo Di niente e di nessuno) e vissuta nella semplicità e nel donarsi reciprocamente. “Lì ci eravamo baciati per la prima volta, lì avevamo fatto l’amore, lì si trovava il nostro pezzetto di mondo. L’ingresso, al male, era vietato.” Il donarsi di chi non chiede nulla in cambio. Il dono è rappresentato anche dalla figura di padre Giovanni, descritta a tutto tondo, dai contorni netti e ben precisi. Un sacerdote che ci fa pensare a tutti coloro che hanno lasciato un segno sulla nostra terra per l’esempio di carità umana e di generosità. “Conosceva la mia storia; quando era successa la disgrazia di mia madre, mi era stato vicino.” Nello scorrere delle pagine si arriva ad un punto in cui vorresti tanto poter aiutare Rosario dal momento che nemmeno le istituzioni e, meno che mai, la scuola ci riescono. Rosario è il ragazzo padre, il ragazzo di Brancaccio e, per i professori, il ragazzo difficile. “Nessuno che mi chiamava col mio nome e basta.” Se non fosse per l’attenzione del professor Battaglia, insegnante di filosofia, che nemmeno aveva un buon pedigree, Rosario forse avrebbe perso anche la voglia di studiare e di andare avanti. Battaglia era un eccentrico perché “le sue lezioni di filosofia erano un invito a volare con la testa, visto che col corpo non si poteva.” Eppure la scuola piaceva tanto a Rosario perché ci vedeva ”in essa l’unica possibilità di riscatto malgrado il suo sistema classista.” Ebbene, Levantino questa volta con le parole arriva più prepotente che mai. È forte la sua scrittura perché ti scorre nelle vene e nello stesso tempo è immediata e ricercata per la ricchezza dei contenuti trattati. “ Un uomo tanto più sa, quanto più vale”.